C’era una volta Giorgio Pisano
Parce ei Domine
Un fotogramma della memoria me lo mostra nel 1968 a Quartu; in piedi vicino alla fidanzata Valeria; lui ampio, lei minuta, bionda, carina.
E’ il regista degli atti unici “I Blues” di Tennessee Williams: storie di emarginati della periferia statunitense; il mio primo regista.
Negli anni settanta recensiva gli spettacoli della Sezione Teatro & Musica da me diretta e presieduta senza guardare solo il bicchiere mezzo vuoto di quei teatranti per lo più esordienti, e in alcuni casi proprio alla buona; ancora ricordo le mezze risate miste a rincrescimento non convinto di un giovanissimo attore, che balbettando si lamentava con me perché già faceva teatro contro la volontà del padre, e per di più, come se non bastasse, aveva appreso dalla recensione di Giorgio di aver recitato con qualche inciampo.
Quando nel 1985 Wojtyla venne a Cagliari, ero sul palco del Papa, tirato su con le spalle al mare di fronte al Largo Carlo Felice, per presentare insieme a una giovane attrice della Sezione Teatro & Musica il “Pomeriggio con i giovani”, e lui era sotto il palco, di lato, sorridente senza la bocca aperta, che nulla annotò su noi ma non mancò di descrivere il vistoso colorato impermeabile di un politico democristiano di allora vestito da capitano dei pompieri, o qualcosa del genere.
Qualche anno fa nella redazione del giornale di cui era vicedirettore, a me che mi proponevo per scrivere rispose semi interrogativo: “Ci vuoi provare Claudio?” Alla risposta affermativa con annessa proposta di rubrica (pezzo periodico), ferocemente indurendo volto e voce, rispose: “C’è un solo caso in cui puoi non presentare il pezzo: che tu sia morto”.
Mi raccomandò: “Non fare il professore.”
Di una prima versione di un mio articolo disse senza infierire col tono: “E’ estremamente noioso”.
In un’altra occasione, seduto dietro la scrivania, guardando da sotto in su con palese incruento disprezzo decretò: “Si vede anche da come ti vesti che sei di destra”, e ancora di me: “Dice sempre grazie: è di destra”.
Una sera intorno alle 21 mi telefonò con voce amichevole per qualcosa che aveva a che fare col mio pezzo settimanale: era vicedirettore ma trovò il tempo e il tono per chiamare il collaboratore esterno alla redazione; e il ricordo ancora mi commuove.
Quando arrivò il mio tesserino di pubblicista e salii in redazione, proclamò a voce alta: “C’è [proprio] posto per tutti”.
Tempo prima aveva fatto però all’aspirante pubblicista un grande regalo. Fu quando con una qualche sicurezza desiderosa di conferma mi ero avvicinato alla sua scrivania dicendogli/chiedendogli: “Giorgio, mi sembra che la rubrica funzioni …”. Rispose senza alzare gli occhi da quello che stava facendo: “Altrimenti non saresti più qui.”
Da poco aveva vinto il premio letterario Alziator. Mi ero preparato per quando lo avessi incontrato una battutaccia sul pensionato Giorgio Pisano colpito dall’Alziator. Non saprò mai se e cosa avrebbe risposto, soprattutto con quale carico della voce e con quale espressione facciale.
E non potrò mai proporgli di scrivere la prefazione a una raccolta in volume di pezzi pubblicati sul suo giornale con l’aggiunta di altre cose.
Il mio coetaneo mi spiegò anche che: “Si può scrivere di un amico, purché lo si dica al lettore”.
Ho scritto di un amico.
Scrivere dei fatti “puri e semplici” però non mi ha mai convinto, anche se a volerli interpretare si rischia di raggiungere rapidamente i confini della cronaca, e si rischia di dilatarli fino a perdere il senso della realtà, scivolando nella fantasia, nella favola.
Ma che cosa è la vita di un giornalista che non corre mai un rischio?
***
Ricordate Don Camillo?, il pretone tradizionalista e ruvido, e il suo amico altrettanto ruvido,il sindaco comunista Peppone?, i due personaggi inventati nel dopoguerra dal giornalista scrittore Giovannino Guareschi? Ve lo chiedo perché è a Don Camillo che ho telefonato per avere notizie su Giorgio.
“Come sta Peppone?”
“Ha patteggiato con San Pietro per il suo ingresso in Paradiso, anche se l’inizio non è stato incoraggiante.”
“Cos’è successo?”
E Don Camillo mi ha riportato il dialogo:
“Nome, cognome, stato di servizio.”
“Giorgio Pisano, cronista.”
“Non sia reticente.”
“Mi considero prigioniero di guerra, secondo la convenzione ecumenica tra laici e credenti sono tenuto a declinare solo le mie generalità … “
Poi Don Camillo ha aggiunto:
“A questo punto la Direzione Generale lo ha affidato a Giobbe, notoriamente meno impulsivo di San Pietro”.
“Tutto bene ora?”
“Bah … sì … a parte il fatto che ogni tanto si guarda intorno e chiede dov’è il trucco, e che si è messo subito a scrivere pretendendo di svolgere un’inchiesta sullo sfruttamento del lavoro minorile dei chierichetti.”
“Nient’altro?”
“Ha in programma un nuvolone intero sulle vicende delle famiglie di profughi in fuga per non rischiare di essere uccisi, e vorrebbe intervistare San Giuseppe sulla sua esperienza”.
“Cose risolvibili.”
“Può darsi, il problema serio è che il processo di patteggiamento sarà comunque lungo.”
“Che ha fatto di così grave sulla Terra?’”
“Non risulta ancora nulla di veramente grave, solo che alle risposte che dà ai giudici intercala battute e quelli si mettono a ridere, così bisogna ricominciare continuamente daccapo.”
“Succedeva la stessa cosa leggendo i suoi articoli; la domenica era festa perché il suo pezzo laico affiancava i rintocchi religiosi delle campane”.
“D’accordo, ma qui ci sono ancora tanti processi arretrati da celebrare.”
“Anche lì? Cos’è questo tuonare continuo?”
“E’ il tuo vicedirettore che durante le pause del processo discute e bisticcia con Montanelli.”
“Chi vince?”
“Il giornalismo.”
Da fonti certe apprendo che Giorgio Pisano dopo aver letto i pezzi su di lui, incluso questo, ha commentato con la consueta smorfia sardonica: “Che carini.”
Il Cantastorie