AI CONFINI DELLA REALTA’


Le congratulazioni
di Edmondo

Non ci si può chiamare Edmondo e vivere nel Duemila, Edmondo può al massimo visitarlo questo secolo, ma poi bisognerà pure che torni a casa sua, nell’Ottocento.
Già solo per farlo nascere e poi descriverlo ho dovuto cambiare penna e usare la stilografica, perché Edmondo, un personaggio cosciente dei suoi diritti, si era categoricamente rifiutato di uscire da una biro.

Edmondo si attarda spesso sul libro “Cuore”.
Edmondo, se sogna di migliorare il proprio stato non accumula dollari, ma gemme. Edmondo non si sposa, prende moglie. Edmondo non diventa padre, è la sua casa che viene allietata dal fausto evento. Edmondo non si arrabbia mai, al massimo, talvolta, è corrucciato. Come nell’occasione che ora vi descriverò.

Sotto il sole di un pomeriggio di settembre, mi ero sistemato su una panchina dei giardini pubblici, quando Edmondo, sporgendo dal taschino della mia giacca, ne ha tirato un bavero e mi ha indicato con il volto eccitato e l’espressione indignata una scenetta che si stava svolgendo non distante da noi.
Un omaccione dai tratti piuttosto volgari stava inveendo con voce sguaiata contro una donna incinta che gli camminava a fianco. La puerpera – così l’ha chiamata Edmondo – stava a testa bassa ed era visibilmente preoccupata. L’omaccione parlava di insostenibili spese per l’allevamento del nascituro e ipotizzava l’interruzione della gravidanza. La donna ha iniziato a piangere, mentre intorno farfalle, fiori e bambini si rabbuiavano.
Allora Edmondo, con un tono che non ammetteva repliche, mi ha pregato di metterlo a terra, ed io così ho fatto. Facendolo prima scivolare sul mio braccio e poi tenendolo in palmo di mano, l’ho poggiato dritto a fianco di un giovane ciuffo d’erba che al confronto della sua statura sembrava un baobab salgariano.
Edmondo, diritto diritto, si è diretto verso la coppia stringendo forte la sua minuscola ma nobile mascella, e si è prodotto in un leggero inchino verso l’omaccione. Poi Edmondo, discreto, composto, ha messo una mano nella mano dietro la schiena, ha sgranato gli occhi posti in cima al  pollice e mezzo della sua statura ai confini della realtà e li ha posati sul pancione della donna. Sorrideva, parlava lieve, mormorava. Infine ha salutato con un nuovo inchino, dicendo all’omaccione: “Mi congratulo con Lei signore per questa benedizione di Dio, che io non ho ancora avuto la ventura di ricevere”. L’omaccione si è disomacciato, a sua volta ha provato a piegare verso Edmondo i suoi tre metri cubi di carni e ossa, poi  ha dato il braccio alla sua donna, ed infine sfilandosi il massiccio orologio d’oro da polso  si è diretto al vicino banco dei pegni. La donna si è appoggiata all’ormai ex omaccione ed ha smesso di piangere.

Cosa aveva detto Edmondo all’omaccione ed alla sua gentile signora prima di  pronunciare i suoi auguri?
Che significato aveva tutto ciò che avevo visto? Non lo so.
Posso però riferirvi che farfalle, fiori e bambini  hanno ripreso a sorridere e svolazzare intorno al sole ed ai futuri genitori, nell’eterna primavera della speranza che non conosce tramonto.

 Claudio Susmel

L’interrogatorio
di uno scafista pluriomicida

Lo scafista abituale e pluriomicida, con molti testimoni a carico e reo confesso, ha rivendicato il diritto di essere interrogato circa le motivazioni che lo avevano indotto a ripetere il suo crimine.
Il giudice ha annuito e lo ha accontentato. Dopo averlo fatto impiccare.

Il cronista ha chiesto al giudice perché non avesse mantenuto la sua promessa.
Il giudice ha risposto dicendo che aveva promesso di interrogare lo scafista pluriomicida, ma non aveva specificato quando.
Il cronista ha replicato ironicamente di non avere sentito le risposte dell’imputato.
Il giudice ha spiegato gravemente che il condannato si era avvalso della facoltà di non rispondere.

                                                                                                Claudio Susmel 

 

“Il Re”

Umberto, alto e magro, era soprannominato “Il Re”.

A  Torino,  sotto  un  soffitto  dorato  della  città  ottocentesca,  sta  servendo  una  coppa di champagne ad una signora elegantissima nel suo abito senza fronzoli e senza gioielli.
Brusio intorno. Un’abat-jour verde poggiata su un pianoforte che suona, diffonde una luce tenue. La crepe calda mi arriva davanti.
Lui, con la sua giacca bianca, dopo   essersi  tolto  i  guanti, aggiunge  al fuoco del caminetto un ciocco di legna.
Si  avvicina  silenzioso ai  molti  borghesi che gli chiacchierano intorno. Ordinano. Lui serve, senza correre ma senza fermarsi mai.  Ora parla  in francese  con un generale dalla divisa elegante, che sta millantando meriti bellici improbabilissimi.
Fuori, il campanello di un tram prima di una curva.
Comincia a nevicare.
Attraverso  la  vetrata  istoriata con le ondulate chiome di alte signore  liberty, vedo correre uno scolaretto e sento il padre che lo chiama: “Enrico, Enrico”. Per   paura  di  vedere qualche  altro personaggio  del  libro  “Cuore”,  Derossi   o  Garrone,  mi alzo e mi allontano da quel caffè nato tanti anni fa nella capitale del Regno di  Sardegna.
All’interno del bar ormai distante, l’alto magro educato cameriere col nome ed il sorriso del Re di Maggio, continua a  servire  senza mai un lamento, per pagare forse le colpe di chissà quale padre così distratto o incapace da privarlo di opportunità di lavoro migliori.

Mi  tolgo il cappello che non ho e lo saluto: Viva “Il Re”.

Claudio Susmel

 


Aragòn Màus e il mercatino dei libri

La trappola per topi

Alle cinque e trenta di una domenica invernale con nebbiolina evanescente, luna, notte e molto, molto movimento al mercatino di viale Trento a Cagliari, un personaggio cerca di varcare i confini tra fantasia e realtà.

Il personaggio descritto da un blog, a causa di un capoverso da lui non previsto, cade dalla riga di un articolo che lo sosteneva e piomba nella realtà, affollata da venditori che si muovono carichi di mercanzia, bancarelle già pronte per la vendita, e clienti a passo svelto con piletta accesa in cerca di occasioni.
E’ un personaggio dal portamento altero.
In piedi sulle zampe posteriori, cappellaccio di feltro marron con ampie falde all’insù, faccetta arrogante con baffetti impomatati, casacchetta di panno rosso e giallo con maniche da cui escono zampe guantate e gesticolanti, calzonacci con ampio risvolto, e uno spadino di Toledo infilato in una cintura stretta alla vita, che ondeggia tra la coda e i piedi scalzi.

Un topo.

Sta per rivolgersi al pubblicista in cerca di storielle.
Prende fiato, e si capisce dallo zampotto anteriore sinistro levato preventivamente in alto, con adiacente sguardo ammonitore, che deve rimproverare qualcuno.
“Protesto contro questa che è una vera e propria trappola per topi.
Ci hanno attirato qui con la promessa di bei libri da rosicchiare, ma poi ne hanno messo così tanti, e così tanti espositori hanno organizzato della vostra spregevole razza umana, che alla fine eccoci sfrattati.
Protesto contro questo dumping che fanno i venditori: i prezzi bassi fanno sì che leggano tutti, anche i nostri potenziali complici, quelli che i libri li disprezzavano perchè non potevano permetterseli; è tutto un circolo vizioso: potendo leggere qui a buon prezzo, ci si abituano, e poi finisce che comprano anche libri nuovi in altri punti vendita della città, così che noi non abbiamo più un po’ di tranquillità da nessuna parte.
Protesto contro questa operosità che potrebbe essere contagiosa finendo per sconfiggere la crisi e i magnifici abitabili ruderi che questa porta.
Protesto perché non possiamo progredire nella nostra opera di distruzione della vostra società fondata sul più miserabile degli apartheid, quello che esclude i topi da una pacifica convivenza con gli umani.
Però scusami, non ti ho ancora fatto l’onore di presentarmi: Aragòn Màus, degli Aragòn de Aragòn y ancora Aragòn che di più non se puede. Abito in città da secoli.”

Mentre Aragòn, con un piede davanti all’altro, una mano per aria, e l’altra sull’elsa del suo spadino di Toledo, sta per continuare con le sue rivendicazioni, viene interrotto da una tromba d’aria che comincia improvvisamente a vorticare, aprendo le copertine dei libri e facendo cadere dalle pagine i loro personaggi che si mettono a discutere con i lettori sulla capacità o meno degli scrittori di rappresentarli efficacemente.
Aragòn sogghigna sprezzante e riprende.
“E come puoi notare l’operosità degli espositori è condivisa dai loro fiancheggiatori. Vedi questa tromba d’aria? Non farti impressionare! E’ un banale trucco descrittivo dell’imbrattacarte di turno, che sta a simboleggiare il movimento continuo di idee causato da chi porta qui libri in quantità industriali.
Fanno gli sgombri gli operosi! Ma fate i fannulloni e continuate a lamentarvi dell’assenza di lavoro dico io! No!, con le loro carrette a mala pena motorizzate, reagiscono i virtuosi! Loro non si arrendono! Sgombrano i libri dalle cantine che con le loro opportune umidità li avrebbero resi sgradevoli per voi umani schizzinosi e di conseguenza disponibili per noi che siamo di bocca e denti buoni, e li portano qui a nuova vita.
Se ci fosse – per la par condicio tra le specie del Pianeta –  una questura gestita da noi topi, li denuncerei uno per uno, almeno quelli che conosco bene, per esempio quello … come si chiama? … ecco vedi, la denutrizione cui mi costringe la vostra bibliofilia topicida comincia a fare il suo effetto, indebolendo oltre al mio fisico anche la mia memoria.
Ci rincuoravamo quando riuscivamo ad attaccare qualche vecchio libro dimenticato in cantina, ma ora a causa della crisi economica gli sgomberi sono aumentati, togliendoci anche quest’ultima consolazione.”

Aragòn abbassa le orecchiotte, è abbattuto, ma non tanto da non riuscire a guardare da sotto in su, sperando in qualche cenno di approvazione da parte del giornalista pubblicista in cerca di storielline da intervallare alle storie serie che propone ai lettori del suo blog, e da parte della piccola folla di topi dagli sgargianti costumi disneyani che lo stanno ad ascoltare, indecisi tra l’applauso e il timore di richiamare l’attenzione dei proprietari dei libri da cui sono scappati.

Un sospiro e Aragòn si riprende.
“E a proposito di furti che ci rinfacciate sempre, lagnandovi per qualche pezzo di formaggio sottratto  alle vostre cucine, quanto ci dovete voi in diritti di cartoni animati e fumetti vari, per le nostre pose carpite con l’inganno e disegnate a scopo commerciale? Rifletti sulle colpe di voi umanoidi e trova un sistema per restituirci questo bello spiazzo nel quale potremmo prosperare, se non ci fossero questi espositori e questi sgombratori che con la loro presenza e il loro lavoro commettono ai nostri danni un vero e proprio delitto.”

“E tu lo chiami delitto questo?”
“Non fare il ruffiano! Che sconto ti hanno promesso sui libri per indurti a rispondermi così?”
“Aragòn io non ti permetto di  …”
“Eeeeh, calmo!, lo sconto lo chiedete tutti, elogiate il lavoro duro ma lo sconto lo chiedete.”

Ora Aragòn assume un’espressione nostalgico sentimentale (zampotte dietro la schiena, respiro lieve, occhiotti liquidi con sguardo lontano e sognante) ed elegiacamente inizia a rievocare.
“Ricordo la cara mia piccola tana che avevo prima dell’arrivo di questi lavoratori, ricordo i miei pranzetti sereni a base di formaggio e altri modesti rifiuti, e ricordo anche …”.
All’improvviso gli occhi fosforescenti di un gatto con gli stivali sbucano da un ultimo libro dimenticato in fondo al buio di un furgoncino, e Aragòn, dismesso fulmineamente l’atteggiamento nostalgico sentimentale, guizza via, non senza un cenno di arrivederci.

Il pubblicista in cerca di storielle prende qualche appunto per non dimenticare le fasi salienti del dialogo appena avuto, e comincia a immaginare che cosa mai volesse ancora raccontargli Aragòn.
Poi, sfoderata la sua piletta, si mette anche lui in cerca di libri per leggere le storielle scritte dagli altri.

Claudio Susmel


Notturno con camicia rossa per Edmondo

Edmondo è impaurito da quella che per lui risulta uno strumento incomprensibile, una scatola magica che sente chiamare televisione; ma prende coraggio, salta giù dallo scaffale che sostiene i libri dell’Ottocento e si mette ad ascoltare.
Le notizie circa lo sbarco di ingenti capitali stranieri sulle coste della Sardegna lo mettono in agitazione.

Edmondo, dalla sommità del suo centimetro e mezzo di statura, è fiero di essere nato nella Patria dell’Eroe dei due Mondi, inoltre è solo in questo secolo e sente il bisogno di confidarsi con un suo coetaneo, così decide di fare un’escursione a Caprera, dirigendosi subito verso la tomba di Garibaldi.

Con il suo berrettuccio in mano è di fronte all’ultima dimora del grande italiano.
Tira fuori dalla tasca della sua giubba alla marinara di panno blu una piccola coccarda tricolore, se l’appunta al petto, e chiama l’illustre padre e suddito del Regno d’Italia.
Lievi ondeggiamenti della terra. La bianca grande luna sorge lentamente ed una ineguale trasparenza umana le si sovrappone. Trasparenza con poncho e camicia rossa.
Garibaldi, occhi semichiusi, un po’ acciaccato e infastidito, misura con gli occhi l’altezza di Edmondo e guardandolo severamente gli chiede: “Riformato alla leva militare?”
Lo guarda anche Edmondo e seppure imbarazzato non riesce ad esserne terrorizzato; Garibaldi è non e’ un padre della patria, della sua Patria? Risponde: “No, sono uso a dare debite spiegazioni, ma è una lunga storia; comprenda, non ho deciso io la mia statura e la mia presenza in questo secolo”.
“Sono in pensione, quand’è che mi lascerete riposare? Possibile che non riusciate mai a far nulla di veramente italiano senza di me?”
“Senatore, io …”
“Non chiamarmi senatore, legiferare non è stata la mia occupazione principale. ”
“Duce …”
“Io ho ubbidito al Parlamento.”
“Generale …”
“Meglio. Titolo professionale. C’è sempre bisogno di professionalità, soprattutto nelle Forze Armate.”
“Generale, i miei concittadini sono discordi sul da farsi per addivenire ad un utilizzo proficuo di questo territorio in cui Lei ha eletto il suo ultimo domicilio e che per ciò stesso risulta consacrato alle sacre memorie della Patria”.
“Se devi venirmi ad avvisare ogni volta che scopri delle divisioni tra gli italiani, ti conviene prendere casa a La Maddalena.”
“Generale mi aiuti a comporre queste estenuanti e sterili diatribe tra civili”.
“Non combatto in guerre civili. Vedo una coccarda tricolore appuntata all’esiguo tuo petto, suppongo tu sia un patriota, organizzati dunque insieme agli altri amanti dell’Italia unita e libera, e agisci”.
“Noi vorremmo che questa amata terra venisse utilizzata da italiani, ma non abbiamo debite risorse per combattere da soli contro le invasioni del denaro straniero.”
“Questa bugia si è sempre usata, anche nell’Ottocento; fate le barricate senza armi, quelle utili alla guerra dei civili, osate, assalite!”
“Ma … e la prudenza?”
“La viltà  si è sempre chiamata così, anche nell’Ottocento.”
“Generale, non riesco a mettere d’accordo i politici delle parti avverse”.
“Spiega loro che neanche io andavo d’accordo con Vittorio Emanuele, ma meglio litigare con lui che parlava italiano, sebbene con quel suo fastidioso accento francese, che andare d’accordo con occupanti stranieri parlando la loro lingua; non sarebbe stato dignitoso per un soldato, non sarebbe stato dignitoso per un uomo libero”.
“Generale, posso tornare a conferire con Lei?”
“Fammi la cortesia però, vieni poco prima dell’alba, quando  inizia il volo chiassoso di quegli strani uccelli d’acciaio che mi sveglierebbero comunque; e vieni a raccontarmi qualche fatto positivo, non solo delle lagne.”
“Obbedisco generale, ma Lei reagisca se i transalpini cercano di espropriarle la terra intorno.”
“Altre volte ho provato a prendere la spada, ma non mi è dato reincarnarmi e l’anima da sola non basta; posso reagire solo attraverso voi viventi, perciò se vuoi veramente che io sia utile all’Italia, dì a questi contemporanei col fisico più alto del tuo ma con aspirazioni infinitamente più basse, di ripassare la storia, altrimenti è chiaro che non riuscirai mai a combinare qualcosa di serio con loro.”
“Si abbia una buona notte generale e grazie dei consigli.”
“Va, va, e non accontentarti della tua coscienza pulita, è tempo di combattere insieme agli altri o vi ritroverete sfrattati dai nuovi austroungarici, e io con voi.”

La bianca grande luna dolcemente sorrise e prese tra le sue lenzuola lattiginose il vecchio generale, e con lui c’erano Pasquale Paoli di Morosaglia, Ugone d’Arborea, e Napolione di Aiaccio.
Cominciarono a discutere in italiano di tattiche e strategie da usarsi in comune per difendere l’intero Arcipelago dallo sfruttamento degli stranieri, senza dividersi chiamando in aiuto aragonesi, francesi, inglesi, austriaci o statunitensi, ma stabilendo di restare  uniti sopportandosi a vicenda, per evitare nuove servitù.

Edmondo rimase ad ascoltarli finchè la luna non spense la luce anche nell’ultimo quarto, quello in cui stavano i generali.
Rimasto al buio, cominciò a rimuginare sul da farsi, ma confortato dal pensiero che c’era un modo per mettersi in contatto con le migliori tradizioni del suo secolo e farle rivivere nel ventunesimo: i libri di storia.

Claudio Susmel

La nascita di Edmondo

“Poiché stava scrivendo una E, ella ha deciso che il mio nome iniziasse con questa vocale; avrebbe potuto lasciarmi almeno la libertà di scegliere le altre lettere.”
“Tu dici?”
“Perché dobbiamo darci del tu signore, se ci conosciamo appena?, e d’altronde non vedo perché dovrei esserle riconoscente per il solo fatto di avermi introdotto in  questo mondo, datosi che al momento mi appare piuttosto bizzarro, a dir poco, e teatro probabilissimo di cattivi incontri.”

Da una goccia d’inchiostro della mia stilografica è nato Edmondo, e per di più con poco inchiostro, perché stava finendo.
Così è nato acquerellato Edmondo. Lieve.
Ha dei pantaloni lunghi e una giubba di panno blu con il colletto alla marinara e i suoi bravi otto bottoni dorati con le ancore.
Che età ha Edmondo?  Figuratevelo come più vi piace; ho parlato con lui per tanti di quegli anni, che a fissarlo in un’età sola sarebbe un’ingiustizia per lui per me e per voi.
Edmondo tiene le mani dietro la schiena, una nell’altra, e prima di salutare le persone le porta lungo i fianchi facendo un leggero inchino.
Edmondo cammina lentamente e si guarda intorno curioso, ma attento a non disturbare. E’ discreto.
Era nato alto un pollice, ma mi ha pregato di usare un altro po’ d’inchiostro per arrivare a un pollice e mezzo; sosteneva che così i lineamenti del viso si sarebbero visti meglio e che il dialogo, anche nella penombra dell’immaginazione, sarebbe risultato più facile. L’ho accontentato, solo che ora, quando per motivi facilmente intuibili lo devo nascondere – le persone potrebbero allarmarsi pensando a mutazioni genetiche in procinto di contagiarle – la misura risulta meno compatibile col taschino della mia giacca.
”Vedi, c’è un motivo per cui i personaggi come te sono sempre alti un pollice.
”Signore, visto che si è preso la briga di immaginarmi come e dove io non mi sono mai sognato di chiederle, speravo avesse un poco di fantasia in più; altrimenti che sugo ci trova ella a scrivere?”

Ha il senso della misura Edmondo, ma anche la coscienza dei propri diritti.
Sono questi per il momento i suoi primi caratteri distintivi, gli unici che possiamo assumere per certi. Per il resto, datemi un po’ di tempo per consultare l’archivio dove ho annotato scrupolosamente tutti i nostri colloqui di questi ultimi anni e cercherò di descrivervelo più compiutamente.

Claudio Susmel